STEPCHILD ADOPTION. Proviamo a mettere ordine
La stepchild adoption si è abbattuta come un ciclone sulle coscienze degli italiani che da bravi tuttologi – e soprattutto da eccellenti censori dei modi e dei costumi – hanno subito avvertito il bisogno di dire la loro su qualcosa che a malapena capivano cosa fosse.
Eppure la legge che ne regola il funzionamento esiste in Italia già dal 1983, consentendo l’adozione del figlio del coniuge “eterosessuato” in presenza di determinate condizioni. Nel 2014 questo istituto giuridico è stato esteso anche alle coppie omosessuali, fissando il principio, ben espresso da qualcuno, secondo cui la paternità e la maternità son fatte di esperienze e non di seme.
Fatta questa doverosa premessa, la stepchild adoption ha sollevato un vespaio di polemiche rendendo evidente una scarsa conoscenza dell’argomento da parte degli italiani. Ad uno stesso campione è stato chiesto se fosse favorevole o contrario all’adozione da parte dei gay e al ddl Cirinnà. Il 73% si è detto contrario al primo quesito. Il 53% si è detto favorevole al secondo.
C’è chi ascrive questa discrasia all’uso forzato e spasmodico della terminologia anglosassone. D’altra parte non è una novità che gli italiani siano poco confidenti con la lingua inglese. Non sorprende quindi che il concetto alla base della stepchild adoption sia stato spesso travisato.
Parliamo quindi di “adozione del figlio affine” e non di “stepchild adoption”. Affine è il figlio del partner (il figliastro, per intenderci). Partner è il compagno; dal latino cum-panis colui (o colei) col quale si divide il pane cioè la vita di ogni giorno. Riconoscere questa facoltà anche alle coppie omosessuali comporterebbe sollevare il velo della vergogna e liberare dalla clandestinità tutte le coppie gay.
Nessun tentativo quindi di promuovere le adozioni giuridiche nazionali o internazionali, quanto piuttosto sancire l’adottabilità del figlio del partner nelle famiglie dove i bambini sono già nati o adottati all’estero (nel caso di coppie omosessuali). Aprire le porte ad un’adozione siffatta segnerebbe una svolta epocale perché consentirebbe alle famiglie ricostruite a seguito di separazione, divorzio o morte – e alle famiglie omogenitoriali – di formare una nuova famiglia. Le famiglie omogenitoriali sono quelle in cui il figlio nasce all’interno della coppia gay o grazie alla gestazione d’appoggio, conosciuta dai più col termine “utero in affitto”.
In Italia la maternità surrogata è espressamente vietata dall’art. 12 della legge 40/2004: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro».
E’ proprio su questo ultimo aspetto che si sono scatenate le peggiori polemiche e le anancastiche parole al vento lanciate in questi giorni. La maternità surrogata è praticata soprattutto dalle coppie eterosessuali, pertanto, negare i diritti sacrosanti ai figli delle famiglie di fatto non ne limiterebbe il ricorso.
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