IL SENSO DEL PRESEPE
Il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, per il prossimo Natale vuole nel suo Palazzo da tutta Italia i presepi da esporre dal 15 dicembre al 6 gennaio. Questa notizia battevano ieri le agenzie di stampa mentre era ancora fresco il lutto per la morte di Luca De Filippo, attore e regista figlio del mitico Eduardo.
Si incrociava a queste due news una terza notizia sul comprensorio scolastico di Rozzano, in provincia di Milano, dove il dirigente (quella figura che chiamavano “preside”) ha annullato la Festa di Natale, ha vietato il presepe e ha rimosso i crocefissi per rispetto alla diversità religiosa delle famiglie non cristiane che frequentano la scuola.
Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi si è adirato e ha dichiarato al Corriere della Sera: “Confronto e dialogo non vuol dire affogare le identità in un politicamente corretto indistinto e scipito. L’Italia intera, laici e cristiani, non rinuncerà mai al Natale. Con buona pace del preside di Rozzano”. Il quale si è dimesso da reggente della scuola primaria.
Un po’ tutta l’opinione pubblica si è ribellata alla scelta eccessivamente laicista del dirigente scolastico. I politici e gli intellettuali ne hanno criticato la decisione sui giornali e in TV e tanti cittadini comuni hanno espresso il loro dissenso privatamente o sulle piazze telematiche con post e tweet sui social network.
Personalmente sono perplesso tutte le volte che una corrente crescente di insofferenti elitari arriccia il naso di fronte alle manifestazioni identitarie del culto e della fede. Mi fanno ridere quelli che alla maniera radical chic sostituiscono gli auguri di Natale con i “season’s greetings”, i buoni auspici delle vacanze di cambio di stagione. Un uso che vuole evocare il significato storico-antropologico del Natale come festa e pausa delle primitive comunità agrarie nel passaggio del solstizio d’inverno fra il tempo della lavorazione dei campi e il riposo.
Su questi temi ho sempre seguito le idee di una celebre Bustina di Minerva, la rubrica di Umberto Eco sull’ultima pagina del settimanale L’Espresso, nella quale il grande scrittore sdoganava il Crocefisso da una significazione meramente religiosa e gli annetteva giustamente il senso simbolico di appartenenza culturale dell’intera comunità italiana, europea ed occidentale. L’anno scorso anche un altro famoso opinionista come Ernesto Galli della Loggia difendeva l’identità del Natale, quello vero, dalla tentazione di de-cristianizzarlo.
Dopo i tragici fatti di Parigi del venerdì 13 novembre 2015, tutti sembrano più indignati dinanzi a ipotesi di allentare i simboli della nostra cultura e della fede. Vi è da capire perché.
C’è chi lo fa per reazione, intendendo così – senza arrivare all’irripetibile shock del titolo di un giornale all’indomani degli attentati alla Ville Lumiere – affermare un senso di sopraffazione rispetto all’offesa subita in casa dall’Europa, quella stessa Europa che però rifiutò nella sua convenzione costituente di recepire la richiesta di Papa Giovanni Paolo II alla esplicitazione del richiamo alle sue “radici cristiane”.
C’è chi lo fa per fede.
C’è chi lo fa per noia.
C’è chi lo fa per professione.
C’è chi lo fa per passione, come avrebbe voluto Bocca di Rosa.
Io lo farei per una una nuova pedagogia della comunità nella quale dobbiamo avere tutti il nostro posto, laici e cristiani, atei e musulmani, buddisti e agnostici, induisti e politeisti.
Ecco perché in piena diffusione della psicosi di attentati jahadisti al grido di “Allah è grande”, mi son piaciute l’idea della mostra dei presepi al Quirinale e quella di Renzi di regalare un presepe alla scuola di Rozzano.
Perché solo mostrando la nostra identità culturale senza senso di superiorità ma con normalità possiamo dialogare con le altre identità religiose, facendoci rispettare nel nostro senso del sacro e rispettando il loro senso del sacro.
E tutto questo c’entra perfettamente con il ricordo di Luca De Filippo, che nell’immaginario di tutti rimane soprattutto Masino di Natale in Casa Cupiello, il figlio di Don Luca che, rappresentando un certo rifiuto delle nuove generazioni per la tradizione, alla accorata e ritornante domanda del padre (“Te piace ‘o presebbio?”) rispondeva altrettanto cantilenante: “No, no, nun me piace ‘o presebbio”.
Tuttavia non tutti ricordano che, quando il protagonista è agli sgoccioli della vita e desta la pietà generale del pubblico e degli attori in scena, il finale della famosa commedia di Eduardo vede l’ultima ripetizione della domanda di Don Luca al figlio: “Te piace ‘o presebbio?”.
Ed è solo allora che Luca De Filippo, prima che cali il sipario, risponde con un groppo alla gola: “Sì”.
Ecco io non ho mai capito se Eduardo gli fa pronunciare quel “Sì” per pietà o davvero perché Masino comprende il senso del presepe.