IL SOGNO DI NATALE. Il mio intervento alla libreria Iocisto in occasione della presentazione del nuovo libro di Marco Perillo
“Na… Na… Napoli, Natale: stessa iniziale, stesso destino. Napoli stessa è presepe. Presepe vivente”.
Se mi chiedessero di segnalare la frase-chiave del libro “Il sogno di Natale” di Marco Perillo, non avrei dubbi a indicare questa. La sillaba Na è anche quella che musicalmente si ripete nella “ninna-nanna”, la fase di accompagnamento al sonno che apre la porta dei sogni e conduce a quello stato di dormiveglia che precede la sveglia e il ritorno alla realtà.
E Marco Perillo nel suo breve e intenso racconto svela un sogno, che è personale e che è collettivo, nel quale si mischiano ricordi e sentimenti in una dimensione che è tutta presepiale, nel senso napoletano del termine.
Proprio stamani sul quotidiano IL MATTINO l’antropologo Marino Niola ha dedicato un bell’articolo di fondo al presepe napoletano, spiegandone la differenza dal presepe in generale con l’osmosi di vita che vi è fra la Città di Napoli e la sacra rappresentazione. E’ questo il messaggio che viene anche dal toccante libro di Marco: uno scambio vitale fra la casa di sughero e cartone sul mobile e i suoi pastori, da una parte, e Napoli e i suoi abitanti, dall’altra parte.
Due settimane fa, un altro napoletano illustre, il direttore dell’Espresso, Luigi Vicinanza, aprendo il suo settimanale con un editoriale intitolato “Il presepe è anche simbolo di laicità”, interveniva sulla polemica scatenata in Italia dal divieto imposto da un preside di Rozzano (nel milanese) di esporre il presepe nei locali della scuola. In qualche modo, veniva ricordata la valenza extra-religiosa di questo simbolo della nostra tradizione natalizia e proprio la versione napoletana del presepe, nel suo snodarsi pagano-cristiano (ricordato da Marco Perillo nelle sue pagine) fa sì che si racchiudano in questo scrigno i valori che vanno oltre il Natale.
Infatti Marco annoda nella narrazione la famiglia, i quartieri, il nonno nel suo atto di trasmettere al nipote la passione per la vita del presepe e nel suo estremo istante di vita, quando muore. Marco annoda il sentimento di un amore inespresso, lo stupore del bambino e la coscienza dell’adulto (“Lì. Fu la prima volta che parlai a me stesso”), la fine dell’infanzia e il rimorso per non aver osato abbastanza con una donna.
E’ curioso come la crescita e lo sbocciare alla vita matura dell’io narrante si leghi al presepio, allo stesso modo di come si lega al presepio questo passaggio ragazzo-adulto nel personaggio di Masino in “Natale in Casa Cupilello” di Eduardo De Filippo, quando dopo aver risposto sempre “no” alla domanda del padre Luca se gli piacesse “’o presebbio”, al finale della commedia il figlio dichiara “sì” all’ultima sofferta domanda paterna: “Te piace ‘o presebbio?”.
C’è poi una intuizione che rende questo libriccino molto importante. E’ un aspetto che non ricordo se ho discusso ex professo con Marco, ma che ci accomuna e – siccome noi spesso ci troviamo d’accordo senza esserci confrontati prima – sono sicuro che condividerà. In una pagina scrive: “Poi tutto mutò dopo il terremoto”.
Questa città ha avuto cantori e narratori che si sono fermati a “Napoli Milionaria” nel teatro e a “Mani sulla Città” di Francesco Rosi nel cinema. Poi ciò che è accaduto dal 1980 in poi nessuno lo ha fissato nell’arte, nella scrittura, nella musica. Lo stesso Pino Daniele, che Marco cita a piene mani con la sua passione per il grande cantante, è stato grandissimo prima del 1980. E a questo punto mi accorgo di aver ricordato tre grandi napoletani, tutti scomparsi nel 2015: Pino, Rosi e il più grande interprete di Masino Cupiello, alias Luca De Filippo.
Rimane che quel decadimento morale di Napoli scolpito da Eduardo fino all’arrivo degli americani non ha trovato una omologa narrazione nello sconquasso del dopo-terremoto, a seguito del quale tutto mutò. Mi piace pensare, poiché Marco al termine del suo sogno immagina un inizio, che questo inizio possa essere il lavoro corale di una nuova generazione di narratori (letterari, cinematografici, teatrali, musicali, artistici) che possa fissare lo sguardo sul 1980 e su ciò che ne conseguì per consentire a questa Città l’autocoscienza di una narrazione che è mancata.
Questo forse può essere l’invito a svegliarsi che chiude il libro.