“L’OCCHIO FISSO”. Lucia Stefanelli Cervelli svela la realtà
Osservazioni, riflessioni, sguardi. Torna “l’occhio indagatore” di Lucia Stefanelli Cervelli. La drammaturga campana ha presentato un nuovo lavoro letterario, “L’occhio fisso. Racconti monologanti per intellettuali piuttosto delusi”, edito da Homo Scrivens nella collana “Direzioni immaginarie”. La realtà, il vissuto, ma anche il racconto e la scrittura teatrale, sono alcuni dei temi affrontati nell’intervista all’autrice.
1) Dall’ occhio strabico a quello fisso. Come nasce questo ultimo libro e quali le differenze col precedente.
Privilegiare il valore dello sguardo su ogni pregressa scelta tematica significa chiedere alla Realtà di esprimere tutta la sua evidenza. Perciò indica anche la mia volontà di non sottrarmi a nessuna delle sue sorprese. Certo, l’occhio è provocatore e ciò che mostra mette in moto la reazione di tutto un mondo interiore strutturato per antica costituzione di pensiero e per recenti connivenze con l’osservazione dell’Oggi. Meraviglie, indulgenze, amarezze, rabbiette e …molta ironia per approdare alla saggezza. Quella del distacco emotivo, s’intende. Quella in grado di anestetizzare in parte il peso dell’indigesto. L’occhio fisso è certamente più corrivo di quello strabico, anche perché più pervicace nell’insistere sull’oggetto della sua cattura. L’occhi strabico, invece, godeva di una maggiore adolescenza dello spirito e si appigliava alle cose più lasciate in angolo, con una mitezza quasi crepuscolare, ma…non meno ferocetta, lo riconosco. Entrambi gli occhi soffrono comunque di disturbi di focus e talvolta accusano la mia intrusione sullo sfondo del comune vissuto.
2) Cosa sono i racconti monologanti?
I racconti sono monologanti perché presuppongono il continuo soliloquio di un omino afflitto dal denunciato disturbo visivo. Egli per tale particolarità, non riesce a corrispondere alla visuale comune. Dunque, per sfuggire dialetticamente alla condanna della sua solitudine, l’occhio dell’omino non può far altro che monologare con se stesso. D’altronde il suo scrivere ha anche una molto amata paternità teatrale. Theomai, io vedo. Questo l’antico Teatro: vedere attraverso l’immagine cogente di una parola altrettanto necessaria e…cogente.
3) A quale dei racconti è più legata e perché?
Nell’occhio strabico sicuramente a Giro, giro…ton/to per l’amara parabola sui giochi per l’infanzia a paradigma di una perenne immaturità dell’umano. Nell’occhio fisso la predilezione va a quei…pronipoti, cui è destinato il pensarci! Fatti loro, dunque. Dopo il nostro tanto agire per testimoniarci a nudo, senza false mitografie.
4) Che caratteristiche ha la scrittura teatrale e chi sono i buoni scrittori di teatro?
La scrittura teatrale deve essere la parola che, senza negare lo spessore di se stessa, tiene conto della condivisione con lo spettatore, Parola che deve avvertire la scena e tener conto della pluralità dei codici cui il teatro perviene. Soprattutto, la scrittura drammaturgica deve razionalmente, emotivamente, relazionalmente suscitare un universo simbolico partecipato e vivo negli spettatori. Tutto ciò anche nell’autonomia cui deve pervenire pure nella semplice lettura, per cui la pagina deve risultare agìta anche per chi soltanto la legga. Naturalmente i buoni scrittori di teatro sono quelli che non cadono nell’errore di farsi soltanto sceneggiatori.
5) Progetti di scrittura futuri?
C’è sempre, costante, in sottofondo, la mia poesia di sempre. Poi una raccolta di racconti del tutto diversa. Senza sguardi evidenti di occhi particolari, che ho voluto liquidare dedicando loro il mio elogio della cecità luminosa. E poi…una sorpresa!Ah, dimenticavo c’è sempre il teatro in agguato!
Enrica Buongiorno