LA FOTOGRAFIA DEI LUOGHI DEL DELITTO. È un’immagine utile? Perché ci piace?
È l’ennesimo delitto familiare. Omicidi che puntellano la partitura di colpi sempre uguali. Questa volta la città prescelta dal sangue è Caselle, comune torinese improvvisamente salito ai (dis)onori delle cronache. Una strage, così com’è stata intitolata, compiuta da Giorgio Palmieri, 56 anni, che per una manciata di spiccioli ha ucciso con un tagliacarte Claudio Allione, 66 anni, ex impiegato Sagat, sua moglie Maria Angela Greggio, professoressa in pensione di 65, e la madre di lei, Emilia Campo Dall’Orto, di 93.
Un drammone mediatico di breve durata: il colpevole è preso subito. L’assassino, colpito come tutti da una grave crisi finanziaria, ha reagito come pochi, facendo fuori padre, madre e nonnina, e dispiacendosi in realtà, come da dichiarazioni, solo per quest’ultima: “Povera nonna, lei non meritava di morire. Le ho detto di non urlare, di fare finta di niente, ma lei ha gridato lo stesso…”.
Il luogo dell’omicidio è una comunissima costruzione di un paio di piani, una villetta degli orrori uguale a tante altre. Le sue fotografie hanno travolto le pagine dei quotidiani e delle reti web. Si vede la casa sullo sfondo, un cancello alto che la circonda e fitti ramoscelli che lo coprono, e ancora un andirivieni di polizia, ris, gente in uniforme scura, bianca, arancione. È una fotografia che non mostra alcunché, che non ci fornisce informazioni aggiuntive. Se una foto sui giornali occorre essenzialmente per mostrare, a cosa serve un’immagine che non fa vedere nulla?
Eppure, ciascuno di noi potrà scoprirsi, morboso, ad osservare queste foto inutili con attenzione da detective, a soffermarsi su ogni dettaglio dell’inquadratura e sui volti di chi viene immortalato. Quasi come che potessimo attraverso l’immagine andare oltre quel cancello, oltre quel portone e spiare l’orrore che si cela dietro i muri. Le fotografie dei luoghi del delitto soddisfano lo sguardo assetato di thanatos, di morte, irrefrenabile all’imperativo di questa pulsione complementare alla vita. Senza distruggere quel tabù un po’ ipocrita del nascondere la violenza.
Certo, perché queste fotografie ci incuriosiscono e spesso appagano proprio per la loro capacità di non dire niente, di non mostrare, ma di lasciar immaginare, intendere. Simili le une alle altre, anche se si tratta location diverse dalle altre. Fiumi di periferia, boscaglia incolta, autostrade, case, l’importante è sapere che lì siano stati ritrovati dei cadaveri.
Tutti ricorderanno la casa del delitto di Cogne, quel grazioso chalet alpino inerpicato sulla collina, scrigno di un mistero che ha appassionato milioni di spettatori. Lo abbiamo a mente perché con la sua capacità di produrre immagini altre è diventato emblema di raccapriccio ed enigma, sostituendo nel nostro immaginario la, ormai innocua, casa dei fantasmi. Ed eccovi una prova. Non so voi, ma io ormai in una baita di montagna non riesco più a dormire serena.
(Foto: fonte ansa)
Giuliana Calomino