LANA DEL REY. Il ritorno con “ULTRAVIOLENCE”
È uscito lo scorso 13 giugno “Ultraviolence”, ultima fatica di Lana del Rey nell’ambito della quale, se possibile, la bellissima cantante newyorkese rincara la dose d’immaginario che si è sapientemente costruita per sé fin dal debutto major con “Born to die” del 2012: quella ispirazione glamour e decadente che fa sembrare i suoi video-racconti spot di Calvin Klein Eternity, la seduzione della fine e la versione obliqua, al tramonto, del sogno americano, l’attitudine dark che le ha permesso, tra le altre cose, di incidere, per la pellicola Disney “Maleficent” con Angelina Jolie, una versione tutta personale di “Once Upon a Dream” da “La bella addormentata” del 1959, che pare un funerale alla moda. La produzione artistica di “Ultraviolence”, che nel titolo tenta l’omaggio al maestro del cinema Stanley Kubrik e al suo fondamentale affresco di violenza e perdizione “Arancia meccanica”, è stata affidata a Dan Auerbach dei Black Keys, che ha prodotto la maggior parte dell’LP nel suo studio di Nashville. Ad Auerbach il compito di tingere tutto del più fosco blues e delle chitarre psichedeliche da colonna sonora di Lynch, mentre la Del Rey – che ha co-scritto ogni canzone tranne il brano di chiusura del disco, il successo di Jessie Mae Robinson del 1950 dal titolo “The Other Woman”, non trascura di rendere la sua imbronciata estetica cinematografica, a cornice della sua voce profonda impegnata nel racconto autocompiaciuto di un desiderio che conduce sempre alla perdita di sé. Ricorda l’immortale “Wicked Game” di Chris Isaak la traccia “Cruel World”, dove un riff intriso di riverbero accompagna liriche seducenti di amore e follia, mentre “Shades of Cool” sembra una colonna sonora per James Bond, ma diretto da Tarantino, col bruciante assolo di chitarra di Auerbach, onde di archi e Lana che addirittura canta da soprano. E tuttavia il deliquio che caratterizza, arricchendosi, pure quest’album, è spiazzato dalla traccia iniziale, che trasforma Lana da chanteuse in frontwoman e getta nuova luce sulle mille ipotesi circa l’esistenza reale del suo talento. La maggior parte degli amanti cantati dalla Del Rey sono impossibili da amare, le sue stesse battaglie impossibile da vincere. L’album avvolge in un unico movimento il desiderio, la violenza e la tristezza: la title track racconta eterea, sul wah-wah della chitarra di Auerbach, di un rapporto clandestino; in “Old Money” la cantante giura: “Se mi chiami / Tu sai che corro da te.” La Del Rey ha dichiarato di recente che il femminismo “non è un concetto interessante”, e alle sue istanze preferisce opporre le morbosità adolescenziali e sexy di “Fucked My Way Up to the Top”.
Rosa Criscitiello