MUORE MOLHEM BARAKAT. Fotoreporter di guerra aveva 17 anni. Colpa della Reuters o sua responsabilità?
Morire per una foto. A 17 anni per giunta. È la storia di Molhem Barakat, giovanissimo fotoreporter assoldato dall’agenzia Reuters, deceduto su quel campo di battaglia che è la Siria, paese dalle profonde e dolorose ferite. Fatale per lui l’ultimo scontro tra i ribelli e le forze del regime davanti all’ospedale di Aleppo, da mesi trasformato in una barricata dallo schieramento del governo.
Barakat documentava da una parte la vita della sua città, il quotidiano, le giornate dei soldati, il centro commerciale della Siria, piccole azioni di ogni giorno che si fanno straordinarie sotto i bombardamenti, dall’altra seguiva le vicende della guerra siriana, accompagnando il fratello combattente nelle azioni di guerriglia. Dopo le scuole ad Istanbul, la passione per il fotogiornalismo cresce e decide di farne professione. Convince la Reuters ad arruolarlo come collaboratore, che lo fornisce di tutte quelle costose attrezzature fotografiche che un ragazzino di 17 non si sarebbe mai potuto permettere.
Cento dollari per una decina di scatti, oltre qualche bonus nel caso le sue immagini fossero state scelte da testate importanti. La guerra dei giornalisti costa poco. Ce lo ha ricordato anche la freelance Francesca Borri, che in un accorato editoriale racconta la verità della professione. Ciò che stupisce ed ha scatenato le polemiche è piuttosto l’età del ragazzo. Firme internazionali come Stuart Hughes della Bbc e Corey Pein si sono chiesti, a nome di tutti, se Barakat era stato addestrato su come proteggersi e come affrontare un mestiere così pericoloso. Era stato preparato adeguatamente? Era davvero consapevole dei rischi nei quali incorreva?
Forse ciò che lascia tutti sbigottiti, e per questo non viene preso in considerazione, è che Molhem Barakat lo sia stato. La guerra annulla le età, non ha riguardo per il tempo di vita di nessuno. Ce lo ricordano le migliaia di immagini di bambini con i mano i fucili. Ma l’homo videns ha scarsa memoria. In Bosnia, durante gli scontri con i serbi nel 1995, furono massacrati a Srebrenica tutti gli uomini del paese con i loro bambini, bastava che fossero alti abbastanza per poter tenere in pugno un arma. Il punto è che a 17 anni si è capaci di decidere della propria esistenza. Nessuno ha mai detto niente sulla carriera di Valentino Rossi, messo sulla moto dal padre quando era adolescente, eppure anche quello può essere un lavoro mortale. Nessuno si è espresso perché il pilota ha avuto fortuna. Le voci si destano dal torpore solo quando le cose vanno male.
Si è detto che nulla può cambiare tanto la storia, quanto una foto. È l’esempio dello scatto di Nick Ut: una bambina fugge terrorizzata dopo un bombardamento aereo con bombe al napalm, a pochi chilometri da Saigon. L’immagine incise profondamente sull’opinione pubblica, tanto da influenzare il corso della guerra in Vietnam.
Certo, i tempi non sono più gli stessi, non si salvano più vite con la macchina fotografica. Ma la necessità di documentare, di dire, di far vedere al mondo cosa succede in alcune parti della terra resta necessaria. Lo sapeva anche uno dei primi e più importanti fotoreporter, Robert Capa, saltato su una mina, mentre riprendeva con il suo obbiettivo. A tutti loro, nessun rimprovero, solo un grazie per il coraggio della verità.
Giuliana Calomino