NAPOLI SENZA PINO, “TUTTA N’ATA STORIA”. Il ricordo della mitica prima edizione del format al Palapartenope che riportò in scena la storica super band del Neapolitan Power
“Non si tratta di conservare il passato ma di realizzare le sue speranze”, scriveva il filosofo Theodor Adorno nel 1947; e sembra scritta per Napoli, questa massima del pensatore tedesco, e per il Mezzogiorno, e per questi giorni vuoti di Pino Daniele e pieni del tentativo di dare un indirizzo alla sua eredità. Tra la fine del 2012 e i primi giorni del 2013 Pino raduna la super-band che si era esibita, quattro anni prima, a piazza del Plebiscito con lo spettacolo “Tutta n’ata storia – Live in Naples”, titolo dell’omonimo album live edito da Sony. Si tratta dello storico super-gruppo con Joe Amoruso, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, James Senese, Rino Zurzolo (più Michael Baker ad alternarsi alla batteria,Gianluca Podio al piano e Elisabetta Serio alle tastiere), e una carovana di ospiti, amici newpolitani come Enzo Avitabile, Enzo Gragnaniello, Antonio Onorato, Rosario Iermano e Raiz, mentre a Gigi De Rienzo è affidata la direzione musicale. Ho condiviso l’esperienza di produzione di quei mitici giorni di show con Alessandro Pacella, storico direttore di produzione di Fast Forward, che se ne ricorda così: «la città rispose in maniera straordinaria: le prime tre date aperte (28, 29 e 30 dicembre 2012) andarono sold out in un tempo brevissimo, e così si decide di aprire quelle di gennaio 2013, 4, 5 e 6. Sei sold out di fila per il teatro-tenda di via Barbagallo a Fuorigrotta, una cosa mai vista che, a guardarli, sembrava quasi non si aspettassero nemmeno loro. Di fatto, le unità di pubblico divise per le sei sere sarebbero bastate a riempire di nuovo piazza del Plebiscito fino all’orlo». Daniele e il super-gruppo, impegnati in una lunga sessione di prove d’allestimento romane, arrivarono al Palapartenope il 27 dicembre, noi della produzione eravamo dentro dal 26 ad attenderli; i maestri dei suoni newpolitani raccontarono a tutti noi l’atmosfera sorprendente di quei giorni capitolini di allestimento, con la sensazione di chi riprende il filo non del discorso di quattro anni prima, ma di trenta; atmosfera che ci siamo poi goduti personalmente durante le prove generali, il giorno prima della prima: Daniele era burbero, esigente e affilato come chi mette la musica prima di tutto, ma tra lui e i maestri del supergruppo c’era un feeling da garage band, con battute e guasconate rigorosamente in quel dialetto che la sua poesia ha riscritto per sempre. «Per noi dunque, si è trattato di assistere a sette show, e forse quello a porte chiuse delle prove è stato il più prezioso di tutti – aggiunge Alessandro, e prosegue – «per le successive sei sere abbiamo ritrovato tutta la città al Palapartenope, e ci ha colpiti la trasversalità, quella anagrafica, coi coetanei di Pino e i giovanissimi, e quella musicale, coi musicisti esperti venuti per godersi il calibro di strumentisti come Joe, Rino Zurzolo, Senese, oltre che naturalmente Pino stesso, e la gente comune, che ha cantato ogni sillaba delle canzoni in scaletta».
Quella scaletta alla quale dava il là “Terra mia”, che trovò Pino visibilmente emozionato, benché lui la raccontasse diversamente: «Chiedo scusa se non ricordo bene le parole, è tanto che non faccio queste canzoni». Mentre al backstage si consumava, per sei sere, un’affollata festa del ritorno, carica di battute, gente calda, aneddoti memorabili, jam improvvisate, piccole trasgressioni e persino la festicciola per il compleanno di James. Durante quei sei memorabili giorni, tra i ranghi del management si discuteva già del futuro dell’operazione, che infatti ha conosciuto altre due edizioni, l’ultima datata dicembre 2014, poco prima della tragica e incredibile notizia che Pino se n’era andato per sempre. «Per noi ragazzi degli anni Ottanta napoletani, la musica di Pino Daniele è stata un trait d’union capace di superare le diffidenze tra le sottoculture – conclude Pacella – i punk, i dark, i metallari, i paninari, a Napoli tutti poi sapevano le parole dei brani di “Nero a metà” o “Vai Mo’”. In quei testi c’era il lavoro che fanno i poeti nazionali con le loro lingue di appartenenza: dopo Pino il dialetto napoletano non fu più quello di Di Giacomo, e senza Pino forse la lingua di Foja ed Epo non esisterebbe». E dunque, il ricordo dell’effimera magia del live diventa monumentale e, in questo senso, reca già in sé la sua viva speranza. Grazie Pino, ci rivediamo in musica.