STORIE DA LAMPEDUSA. Fabrica inventa “Sciabica”, pizzini digitali lanciati nella rete.
Non è solo il mare che impiega tanto tempo a calmarsi dopo una tempesta. L’animo fa altrettanto quando è fortemente scosso. Colpito da un dolore o da un lutto. Un’intima tragedia che a volte si fa dramma umano, come quello avvenuto a Lampedusa, nella notte tra il 2 e il 3 ottobre 2013, e che non si smuove più dal cuore. Almeno per chi l’ha vissuto in prima persona. Quella sera nel canale di Sicilia naufraga un barcone carico di immigrati in arrivo dall’Africa, e muoiono quasi quattrocento persone, decine di altre disperse.
Accorrono sull’isola giornalisti, politici, televisioni, e perfino il Papa, eppure dopo qualche giorno, le acque della notizia si ritirano. Vanno via tutti, restano solo i Lampedusani a raccoglierne i resti. I corpi senza vita affiancati sul molo, avvolti in teli di plastica colorati; quella serie interminabile di vite perdute, sono per il mondo una lontana memoria. Più di un mese dopo l’immane tragedia, nessuno osa riportare a galla il sofferente ricordo.
A sfidare il veto del silenzio è solo “Sciabica”, rete digitale che cattura le voci e i protagonisti diretti di questa storia. Una raccolta di pizzini digitali, versione moderna di quelli siciliani fatti di carta, che pesca i volti e le parole della gente di Lampedusa. Fotografie e pensieri di uomini che hanno soccorso in mare i naufraghi, e che chiedono con fermezza che tali tragedie non capitino più.“Sciabica” non è altro, infatti, che è una parola di origine araba, che significa rete da pesca. La stessa che Fabrica ha gettato per prendere su i racconti di chi è rimasto, al di là del trambusto mediatico e dei tempi serrati della cronaca. “Sono i tempi di chi continua a vivere qui, ora che i riflettori sono spenti, e cerca di mettere ordine: in mare, per strada, nel proprio animo”.
Un’iniziativa di Slow Journalism, laboratorio annesso a Fabrica, centro di ricerca sulla comunicazione, diretto da Enrico Bossan, che diventa testimonianza intelligente e sentita, e ci racconta squarci profondi di esistenza: come quella di Costantino, che con la sua barchetta “Nika” ha salvato 18 disperati; o di Vito che ne ha caricati più che poteva ed ora è chiamato “papà” dai profughi. Ci sono i racconti dell’orrore dei sopravvissuti nei centri di accoglienza e di chi ha raccolto corpi dal mare. Lampedusani e profughi assieme, che non si sentono degli eroi solo perchè hanno salvato una vita. Un’ovvietà spesso scambiata per eccezionalità.
Su ogni pizzino è indicato il destinatario (autorità, politici, italiani) a cui Fabrica farà pervenire i messaggi, gridi di dolore, come Giuseppe che dice: “Quest’anno il pesce scarseggia. Io penso che il mare sia in lutto per quello che è successo”, o di coscienza, come Mussie che chiede: “Smettete di dare cittadinanza ai morti e cominciate a dare diritti ai vivi”.
Tutti concordi, in ogni caso, nell’affermare che con le reti bisognerebbe tirare solo il pesce, non gli uomini.
Foto © Fabrica
Tutte le immagini su: http://sciabica.tumblr.com/
Giuliana Calomino