NON SIAMO NOI CHE ANDREMO ALL’INFERNO. Romanetti e le poesie della verità
Ci sono rom delinquenti, puttane vere (e non prostitute costrette a battere il marciapiede), bambini che bestemmiano ed eroi nel nostro tempo, lontani ma idealmente sempre presenti. La poesia è uno spazio libero dove poter esprimere la propria opinione, per Francesco Romanetti: un luogo dove affermare la propria verità. Che in ogni ballata, tiritera o componimento in alessandrini (un verso antico quanto il poetare stesso) del suo libro “Non siamo noi che andremo all’inferno” (edizioni Intra Moenia, pagg. 140, euro 10, prefazione di Roberto De Simone) ci ricorda la possibilità di esserci ancora, con un’individualita’ forte che non si è fatta corrompere dai qualunquismi sociologici, dal buonismo democristiano, da una società cattiva che a tutti i costi vuole apparire santa. È una poesia che in tempi di narrativa fai-da-te e dello svago a tutti i costi, riporta alto il valore della parola scritta, reiterata, allungata fino ad assumere altri e più pregnanti significati. Ma non è poesia oscura, anzi: i messaggi di Romanetti sono forti, e parlano non già per educare, quanto per portare conoscenza. A volte per denunciare squallori e prepotenze, altre per ricordare, proiettando in un oggi deserto di valori e sentimenti, un passato pieno di significati, dove la parola “coscienza” non era uno slogan politico ma un imperativo intimo e sincero. La fine della lettura è come l’inizio, con quella copertina che spara un uomo nudo dal pugno alzato, e afferma la sua verità (da un film di Pasolini, che all’interno è richiamato con un’iconografia essenziale): lascia l’idea di dover tornare indietro per forza, di doversi riappriopriare ancora di una frase, di un verso, di un martellamento ritmico. Non c’è niente di fintamente intellettuale, in queste poesie: c’è tutta l’anima di un giornalista che continua a essere se stesso, e a scrivere anche per svegliarci dal sonno dell’assuefazione.
Ida Palisi