L’ALTRA FACCIA DELLE OLIMPIADI DI SOCHI. Quello che non sapete ve lo mostra la fotografia di Rob Hornstra e Arnold van Bruggen
Permettere che un paese dove vige una semi-dittatura, che imprigiona i gay, Pussy Riots e giornalisti, e ammanetta qualsiasi contestatore, dove le bocche sono cucite e la censura è pane quotidiano sia la sede dei Giochi Olimpici invernali è già una cosa grave di per se. Se poi a quest’evidenza si aggiunge un fitto lavoro di documentazione che mostra le contraddizioni dell’imponente macchina sportiva nella terra dei soviet, l’entusiasmo per le prossime Olimpiadi in Russia (che si terranno a Sochi, dal 7 al 23 febbraio), se non placato, dovrebbe essere quantomeno ridimensionato.
Rob Hornstra e Arnold van Bruggen, uno fotografo, l’altro scrittore olandesi, sono gli autori de “The Sochi project”, che racconta di un territorio complesso e delle sue trasformazioni negli anni della preparazione ai giochi invernali. Un progetto lungo 5 anni, che utilizza un mix di molti media: fotoreportage, video, testi, documentari, social network per arrivare al libro fotografico che si compone di nove volumi. L’ultimo stampato “An Atlas of War and Tourism in The Caucasus”, è disponibile da qualche mese.
“The Sochi project” è una ricerca antropologica e sociale di ciò che riesce a muovere un fenomeno agonistico in una porzione di nazione che versa in condizioni estreme di degrado e povertà. Il piccolo paese di Sochi, infatti, dista solo 20 km dalla zona di guerra di Abkhazia e si trova vicino alle montagne del Caucaso che affondano i loro piedi a Est nelle poverissime e dimenticate repubbliche post-sovietiche di Cherkessia, Ossezia del Nord e Cecenia. Un contrasto reso ancora più evidente dalla struttura della città che alterna vecchi sanatori con costosi hotel, appartamenti di rifugiati con lussuose residenze costruite per l’occasione. Non solo.
Basta sapere che questi giochi invernali (e che quindi hanno bisogno di freddo, neve e piste) saranno ospitati in un luogo soprannominato “la Florida della Russia” per il suo piacevole clima subtropicale, per capire che qualcosa non va. Boris Nemtsov, ora candidato sindaco a Sochi, riassume così il paradosso: “Le Olimpiadi Invernali hanno sconvolto la nostra città, trasformando una stazione marittima in una meta invernale. Quando Putin ha deciso di accrescere il proprio prestigio internazionale, ha passato alcune ore su di una mappa della Russia. Alla fine ha scelto l’unico posto senza neve”.
A Sochi non c’era nulla. Tutto è stato costruito da zero. Migliaia di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case e la propria terra. E il territorio è stato devastato. Secondo le denunce degli ecologisti locali riportate, il corso di diversi fiumi è stato modificato, piste da sci sono state allestite in siti protetti dall’Unesco e sono sorte discariche in aree vulnerabili.
Come se non bastassero le violazioni all’ambiente, si aggiungono poi quelle per i diritti umani. Sono stati sfruttati centinaia di operai per lo più senza contratto, soggetti a condizioni di lavoro indegne e, spesso, neppure pagati. Diverse sono state le denunce di gente ridotta a condizioni vicine alla schiavitù. Van Bruggen ha intervistato alcuni di loro, mentre le foto di Hornstra mostrano eloquenti immagini sulle condizioni di vita di queste persone.
E non è finita. A Sochi la corruzione impera. Con oltre 50 miliardi di dollari (contro i 12 dell’iniziale previsione di spesa di Putin) questa l’Olimpiade si aggiudica la medaglia per essere la più costosa della storia, grazie ad un sistema che si basa su una diffusa e capillare corruzione. I meccanismi della lievitazione dei prezzi sono chiariti, grazie ad una serie di interviste, nel “The Sochi Project” che spiega anche l’enorme investimento per proteggere i giochi da attacchi dei terroristi, che hanno già minacciato di star preparando per l’evento “una sorpresa”.
Tutto quello che non si dice, tutto quello che non si vuol far uscire fuori, tutto è documentato dal “The Sochi Project”. È per questo che Rob Hornstra e Arnold van Bruggen non potranno più mettere piede in Russia e continuare a riprendere cosa avverrà durante i giochi e subito dopo, quando tutti se ne saranno andati e l’attenzione dei media calerà.
Un no che sottolinea la potenza del lavoro dei due autori. È la forza dello slow journalism, del giornalismo indipendente che fa tanta paura anche ad un tipo come Putin.
Foto © The Sochi Project
Info:
http://www.thesochiproject.com/
Giuliana Calomino