JILL FREEDMAN. Una fotografa persa a New York
Steven Kasher di New York rende omaggio “a una delle fotografe più ignorate della sua generazione”: Jill Freedman, definita così dal critico d’arte A. D. Coleman. Una delle poche artiste che è riuscita a lasciare un segno senza avere studi specifici alle spalle, un’autodidatta che ha osservato e rubato dai maestri che prima di lei si sono cimentati nella street photography: André Kertész, W. Eugene Smith, Dorothea Lange e Henri Cartier-Bresson.
New York è il suo soggetto preferito, e le sue fotografie sono apprezzate soprattutto per il carattere quasi estemporaneo, il carpe diem. La capacità, cioè, di cogliere il “teatro della strada” senza dare nell’occhio, con un interesse particolare verso gli homeless e i borderline, quelle persone che vivono per strada e a cui nessuno fa caso. Dagli anni ’60 agli anni ’80, Jill Freedman ha ritratto gli aspetti più contraddittori e ambigui della metropoli contemporanea, con uno stile forte che anticipa quella fotografia di moda “spettinata”, “maleducata”, modernssima dell’era Kate Moss. Un lavoro reso ancora più personale dall’approccio partecipato ed emozionale, tanto al soggetto quanto al mezzo fotografico, che spesso si confonde con la propria, di vita.
Ciò che più è interessante, infatti, è la storia personale della Freedman. Nata a Pittsburgh nel 1939, viene folgorata dalla fotografia a sette anni, quando trova in soffitta dei vecchi numeri della rivista Life: non ha mai visto nulla del genere, è emozionata, ma i genitori bruciano tutte le copie per non turbarla.
Tuttavia questo gesto non serve a molto perché la bambina non dimentica. Dopo gli studi in sociologia e antropologia, Freedman arriva a New York, precisamente nel Greenwich village, nel 1964. Viaggia molto, soprattutto in Europa, e sopravvive cantando nei nightclub, finchè un giorno arriva la svolta: prende in mano una macchina fotografica, si inoltra per le strade di New York, e sente di non aver fatto altro in tutta la sua vita.